Il 24 settembre 1821, alla presenza dell’arciduca Ranieri, viceré del Lombardo Veneto, si inaugura a Lovere la Stele Tadini di Antonio Canova, consacrata alla memoria di Faustino, figlio del conte Luigi Tadini, precocemente scomparso nel 1799. La riproduzione della Stele Tadini resta a lungo per il conte un problema senza soluzione, dopo le modeste traduzioni a soli contorni pubblicate nel 1821 a Lovere e nel 1822 nel volume della Albrizzi (quest’ultima ad opera di Giovanni Paolo Lasinio) e il fallito tentativo di coinvolgere l’incisore bresciano Alessandro Sala.
Canova era molto attento alla divulgazione delle proprie opere, affidata principalmente a gessi e a incisioni, e curava personalmente l’inquadratura e la resa dei dettagli tanto nelle incisioni a soli contorni, quanto in quelle di traduzione. Proprio il riferimento alle incisioni prodotte nell’entourage canoviano invita a riflettere sulla riproducibilità dell’opera d’arte veicolata attraverso un medium differente, e su quegli elementi – la luce, l’inquadratura ma anche il trattamento della superficie – che ne veicolano l’immagine. O l’interpretazione.
Da queste considerazioni nel 2009 è nata quest’idea: invitare i fotografi a interpretare la scultura loverese di Canova. Dopo l’omaggio di Giulio Paolini (2009) presentato nell’ambito della mostra Quattro collezionisti a confronto sono stati acquisiti nel tempo gli scatti di Giuseppe Cella (2009), Giovanna Magri (2011), Vincent Bousserez (2015), Gianni Berengo Gardin (2019), Maurizio Galimberti (2021) – questi tre con il sostegno di Forni Industriali Bendotti S.p.A. – e Luigi Spina (2022).
Lo sviluppo del progetto ha visto coinvolti Davide Bassanesi, Edgar Caracristi, Fabio Cattabiani, Gianluca Chiodi, Luca Marianaccio, Omar Meijer, Allegra Martin, Flavia Rossi, Jacopo Valentini, individuati dai curatori, Kevin McManus e Marco Albertario.
L’idea che sta alla base della richiesta fatta agli autori coinvolti è che il peculiare rapporto, tipico del medium fotografico, tra dispositivo e realtà fotografata sia sempre presente nello scatto, a prescindere dalla distinzione, spesso fuorviante, tra analogico e digitale. Che sia una questione non tanto tecnica/scientifica, quanto relazionale, laddove la relazione è quella che lega l’oggetto alla sua immagine.
Questa relazione, qualora l’oggetto sia un manufatto artistico, ha fortemente influenzato la nascita dell’insegnamento moderno della storia dell’arte, basato sulla possibilità di visualizzare le opere in riproduzione fotografica. Questa pratica segna quindi, già nel primo modernismo, la confluenza tra la storia dell’arte e quella che oggi chiameremmo “cultura visuale”. Se da un lato l’immagine fotografica consente un’applicazione radicale del giudizio estetico, privato di legami con la portata emozionale dell’opera, dall’altra essa comporta la possibilità di isolare il dettaglio nella sua portata iconica, rendendolo autonomo dall’opera di partenza
Il caso della fotografia di scultura, in questo senso, è fondamentale, dal momento che la scultura stessa, con il suo occupare realmente lo spazio, mette in scena la presenza del suo referente, lo ricolloca nel mondo. La mediazione fotografica permette, a seconda della scelta dell’autore, di riscaldare o raffreddare questa presenza, di darle una carne apparentemente più viva, o al contrario di allontanarla ulteriormente dall’osservatore, di aggiungere un filtro.
Di interpretarla in quanto forma simbolica in relazione con lo sguardo del fruitore.
Marco Albertario, Kevin McManus